CALUZZI FRANCA

 

VILLAMINOZZO CALIZZO Sono nata lì, poco prima del Natale 1944, in una cucina surriscaldata dai ceppi che mio padre faceva ingoiare al caminetto. Una catena pendeva dall'alto e attaccato alla catena un paiolo con l'acqua che bolliva. Mia mamma, di quei momenti, ricordava quel grande caldo. Fuori c'era la neve e calma e silenzio. Tanta neve che nel sentiero per Tapignola, dove il giorno dopo sono stata battezzata, il mio padrino sprofondava e mi teneva alta perché non mi bagnassi, seguito da mio fratello, sette anni, che non capiva perché mai fossi arrivata a disturbare i suoi giochi. Erano gli anni più belli della sua infanzia. Con tutta quella neve la guerra sembrava lontana, eppure su questi monti si combatteva ancora. Bisognava aspettare aprile perché la pace arrivasse davvero. Queste cose mi sono state raccontate dai miei genitori ma qualche anno dopo tante immagini hanno cominciato ad affollare la mia memoria e ora tornano tutte insieme a ricordarmi quelle estati felici. Abitavo in città, in una strada dove enormi palazzi tutti uguali sembravano darsi per mano sulle sponde del torrente Bisagno. Erano le case popolari che a Genova cominciavano a portare il cemento nelle periferie. Quando finivano le scuole partivamo, la mamma, mio fratello, io e anche i cugini. Rimaneva solo mio papà. Ricordo le valigie, legate per sicurezza con delle vecchie cinghie da pantaloni. Prendevamo il tram, e mia madre chiedeva lo sconto al bigliettaio che voleva far pagare il viaggio ad ogni pacco, e il treno Genova-Voghera e quello Voghera-Reggio Emilia dove ci accoglieva un caldo soffocante e una carrozza a cavalli per portarci alla corriera. Questa lasciava la pianura e si inerpicava verso i monti per arrivare a Felina e poi Villa Minozzo. L'aria diventava frizzante e la strada asfaltata finiva. Ne iniziava una bianca di ghiaia e di polvere che "i stradin " si affannavano a tenere in ordine. La ghiaia, sotto le ruote dei pochi mezzi che passavano, schizzava sui lati e si formavano i solchi. Con la pala la rimettevano al centro e la pareggiavano perché fosse ben liscia, tutti i giorni. Anche mio cugino Decio era stradino. In piazza, aspettavamo pazientemente l'ultima corriera che ci avrebbe portati a Calizzo. Valigie e bambini eravamo saliti e scesi un numero infinito di volte mentre mia mamma si affannava a contarci. Io avevo l'autorizzazione a stare davanti, in piedi vicino all'autista, perché "pativo". Così vedevo per prima i campi gialli di grano, Case Zobbi e il Cusna con i canaloni ancora innevati. Mi sembrava un sogno, un mondo fantastico dal quale non avrei più voluto uscire. La mia casa non aveva i servizi, ma nemmeno quelle degli altri. D'altronde non c'era neppure l'acqua in casa. La fontanella e il trogolo sarebbero stati costruiti molti anni dopo. C'era una sorgente, nel fosso, e l'acqua la prendevamo lì, due secchi per volta che noi bambini - anche io appena cresciuta un po' - portavamo appesi ad un lungo e grosso bastone, liscio e tondo, che tenevamo in bilico sulla spalla, attenti a non rovesciarne nemmeno un po'. I ricordi non sono solo immagini ma anche odori e sapori. Sento ancora in bocca la frescura di quell'acqua quando sudata e affannata per i giochi attingevo con un mestolo di alluminio dal fondo piatto nel secchio "da bere", in ferro zincato, sotto al lavandino, dietro una tendina a quadretti bianchi e rossi. Mio padre era ingegnoso e nel vecchio muro della cucina, profondo chissà quanto, aveva ricavato un capace serbatoio che riempivamo, attraverso una lunga fessura, con l'acqua che poi usciva dal rubinetto e serviva per lavare i piatti. Sembrava un bel gioco.

I panni li lavavano al fosso, le mamme inginocchiate sulle pietre, prima che costruissero il trogolo diviso in tre scomparti, uno per fare bere le mucche, uno piccolo per l'acqua corrente e un altro che il sapone intorbidava con la sciacquatura. L'oratorio c'è sempre stato, una minuscola chiesetta dedicata a San Francesco, proprio davanti a casa mia. Ma per andare a Messa, la domenica mattina, si partiva, donne uomini e bambini coi vestiti della festa, per il ripido sentiero che sale a Tapignola. Le mucche! Ogni famiglia di Calizzo le aveva e io accompagnavo la mia amica Marta al pascolo. Lei abitava a Milano ma d'estate era lì dove aveva gli zii che coltivavano e curavano le bestie. Le conoscevo per nome, Bianchina, Bigia, Mora, e le inseguivo col bastone perché non andassero a brucare nei campi di erba medica. Con l'erba fresca sarebbero gonfiate fino a scoppiare, così ci dicevano. Partivamo noi due se i pascoli erano vicini, o sul barroccio con gli zii se i campi erano lontani. "E broz", così lo chiamavamo, partiva vuoto e tornava carico di fieno. Noi ci sedevamo sul pianale con le gambe penzoloni che sfioravano il terreno e guardavamo la strada che scivolava tra i nostri piedi. Il ritorno, se il fieno era tanto, ce lo facevamo a piedi, insieme alle mucche. Mio fratello invece, che era più grande, poteva stare lassù, appollaiato sul fieno altissimo come sull'albero di una nave, e ogni sobbalzo lo faceva ondeggiare e lo riempiva di gioia. Lo invidiavo. Mi portavo una bella merenda per la metà del pomeriggio e la Bigia una volta se l'è mangiata: due fette di pane con una "Nutella" d'eccezione, burro e rosso d'uovo sbattuti a crema, zucchero e cacao. Ma il barroccio non serviva solo per trasportarci insieme al fieno. La sera, sotto le stelle, adagiato con le sue due grosse ruote e la lunga stanga sul prato vicino all'aia, era il giaciglio di noi bambine che, occhi in su, ammiravamo il cielo farsi sempre più buio e più brillante e sognavamo. Prima, finchè c'era luce, aiutavamo le donne a sfogliare le pannocchie di granturco, e con quelle foglie riempivamo i materassi, oppure i vimini, gli "struplin", che crescevano sulle rive del fosso. Toglievamo le foglioline tenere fino a scoprire il biancore di questi bastoncini elastici che servivano, intrecciati, a fare i cestini. Alti cumuli verdi si ammucchiavano sull'aia e noi ci coricavamo sopra. Come erano morbidi! Con quanta ansia aspettavamo l'avvenimento che segnava ogni estate! La trebbiatrice arrivava dalla lontana pianura di Reggio, un'enorme bestia con pulegge e cinghie che sembrava costruita col meccano. Ingoiava le spighe e ne uscivano i chicchi da una parte e la paglia dall'altra, grandi balle rettangolari pressate e legate. Tutto il paese lavorava e seguiva come una processione la macchina che veniva spostata da un podere all'altro. Era una festa che durava più giorni e il rumore e il vociare e la polvere si intrecciavano a formare uno spettacolo unico. Avevamo la paglia fra i capelli e mescolata al sudore delle spalle, ma nessuno ci toglieva di lì. Un gioco affascinante che si ripeteva tutti gli anni. La mia amica Marta abitava dietro l'oratorio. Ogni casa, di pietra, era attaccata ad un'altra. Sopra c'era il fienile e una lunga scala per arrivarci, a fianco la stalla e il toro stava sempre dentro. Guai a mettere le mani vicino alle sbarre. Davanti c'era l'aia e dopo l'aia un bel prato. Il fuoco era sempre acceso e i muri neri di fumo. Con uno stretto e basso passaggio ci si ritrovava a fianco dell'oratorio. Ogni zio aveva un pezzetto di quella casa. Più avanti ne era stata costruita una nuova e bella con una grande stalla e un bel fienile, proprio sopra la strada bianca di ghiaia, la strada "nuova", e lei era andata ad abitare lì. Al sabato facevano il pane, lunghe file di pagnotte tonde e croccanti unite fra di loro, e tutta la strada profumava della sua fragranza, un profumo così intenso che sento ancora nelle narici. Noi bambini correvamo per mangiarlo caldo e ci scottavamo le dita. Veniva conservato, fasciato nella tela dentro le cassapanche, per una settimana. Intanto, nella cenere ancora calda del forno mettevano le mele e ne uscivano incipriate, con la buccia raggrinzita e la polpa morbida e squisita. Quanti buoni sapori! Come quello del prosciutto crudo preparato dagli zii, spesse fette rosa pallidocon un gusto che mai più ho ritrovato. E la panna del suo latte che raccoglievamo col cucchiaio e stendevamo sul pane, spolverata di zucchero. Era tutto buono quello che si faceva in quella casa. Mio papà arrivava d'agosto, con la moto. Una Ducati 60, e sessanta sta per cilindrata, che lo aveva accompagnato perfino a Mestre. Ma anche arrivare a Calizzo non era uno scherzo, duecento chilometri di curve e i passi del Bracco e del Cerreto da superare. Le sue ferie duravano poco, la ditta lo mandava sempre a chiamare. Lavorava anche lì, perché aveva le mani d'oro e anche un cuore d'oro. Lo cercavano tutti. Remo dov'è? A Villa veramente lo chiamavano Tonino, perché lì era nato e cresciuto e Tonino era il suo soprannome. Aveva imparato da un calzolaio, "un scarpulin" , e sapeva fare le scarpe ma a Genova si era messo a fare l'idraulico e a lavorare negli impianti di riscaldamento. Mi raccontava che, appena finita la guerra, aveva portato la luce a Febbio, una lampadina in ogni casa, con una turbina che sfruttava la forza dell'acqua del fiume e una dinamo che aveva recuperato da un motore di aeroplano che era precipitato. Per fare la prova di quanta energia avrebbe ottenuto aveva sistemato su un grande albero un enorme grappolo di lampadine. Tutto il paese si era raccolto, occhi in su, ad aspettare che si accendessero e quando accadde un vecchio che mai aveva visto la luce elettrica si era messo a piangere, convinto di un miracolo. Fu un avvenimento per tutti. L'unico chiarore che Febbio , come gli altri paesi, conosceva era quello dei lumi a petrolio e il petrolio era un lusso. Poi, non so come, era riuscito a procurarsi grossi rotoli di filo di alluminio - il rame era introvabile - e li aveva stesi, con l'aiuto degli uomini del paese, con una linea aerea che raggiungeva ogni abitazione. Era una festa quando mio papà arrivava e un dispiacere vederlo ripartire. Non facevamo spesso lunghe camminate. Il piacere di andare per monti lo avrei scoperto più tardi . Ma il Prampa e il Cusna erano mete obbligate. Il Cusna è il re dell'Appennino e ci arrivavamo partendo da Calizzo, salendo a Tapignola e a Santonio, e poi Coriano e Monte Orsaro da dove raggiungevamo, attraverso un lungo crinale, la vetta. Ritornavo stremata e contenta di aver portato a termine quello che per me era un lungo pellegrinaggio. Mai avrei immaginato che molti anni dopo, ormai mamma, avrei portato mio figlio a scorrazzare su e giù per questi monti, Prado, Abetina Reale, rifugio Cesare Battisti, lago di Bargetana, Passone, Alpe di Vallestrina, tante volte da conoscerne ogni sentiero. E' qualche anno che non ritorno al mio paese, anche se con l'auto, ora, è diventato facile arrivarci. Ci tornerò presto, spero, per rivedere Calizzo, Villa e l'Alpe.

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